Con una recentissima pronuncia[1], la Terza Sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione ha esaminato il caso di un datore di lavoro che, previa acquisizione del consenso dei lavoratori, installava gli impianti di videosorveglianza e controllo nei luoghi di lavoro.
Nello specifico, la sentenza di primo grado vedeva l’amministratore condannato al pagamento di un’ammenda per il reato di cui all’art. 4, legge 20 maggio 1970, n. 300[2] per aver installato un impianto di video ripersa senza accordo con le RSA e senza l’autorizzazione della DTL.
La ricorrente adiva la Corte di Cassazione con un unico motivo di ricorso[3] chiedendo l’integrale riforma dell’impugnata sentenza e richiamando, allo scopo, un costante orientamento giurisprudenziale allignatosi in materia secondo il quale, sostanzialmente, il consenso dei lavoratori equivarrebbe ad assenso delle rappresentanze sindacali e, quindi, avrebbe efficacia scriminante.
Preliminarmente, la Suprema Corte richiama l’art. 23 del Decreto Legislativo n. 151 del 14.9.2015 che, a modifica dello Statuto dei Lavoratori, così dispone: “gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla RSU o dalle RSA […] In mancanza di accordo gli impianti e gli strumenti […] possono essere installati previa autorizzazione della Direzione Territoriale del Lavoro […]”.
Il Collegio non ritiene condivisibile tale impostazione poiché la ratio della norma in questione è quella di tutelare interessi di carattere collettivo e superindividuale; quindi il datore di lavoro che omette di acquisire il consenso delle rappresentanze sindacali produce la lesione degli interessi collettivi.
Il consenso delle rappresentanze sindacali è imprescindibile anche perché il lavoratore è considerato il soggetto contrattualmente più debole ed assoggettato, in ogni caso, alla forza e al potere economico propri del datore di lavoro.
In definitiva, la Corte cristallizza il principio secondo il quale “il consenso – scritto e/o orale – del lavoratore non ha alcuna rilevanza, poiché la tule penale è apprestata a interessi collettivi di cui le rappresentanze sindacali sono portatrici in luogo dei lavoratori che, a causa della posizione di svantaggio nella quale versano rispetto al datore di lavoro, potrebbero rendere un consenso viziato”.
Alla luce di quanto sopra, l’esigenza di tutelare un interesse collettivo prevale sul potere dispositivo del singolo lavoratore che, in ogni caso, è considerato viziato ab origine stante lo squilibrio della propria posizione contrattuale nei confronti del datore di lavoro.
Per tutte queste motivazioni, pertanto, il consenso spetta unicamente agli organi collettivi deputati a salvaguardare i diritti dei lavoratori.