Con la sentenza n.3417/2016, la terza sezione penale della Corte d’Appello di Venezia, in riforma della sentenza di primo grado emessa dal Tribunale di Venezia nel 2003, ha assolto quattro ex dirigenti della società EVC Italia S.p.A. dal delitto di omissione dolosa di cautele antinfortunistiche, aggravato dalla verificazione del disastro (art.437, co.2 c.p.), in relazione al rilascio in atmosfera di circa tre tonnellate di CVM (il micidiale cloruro di vinile) da uno dei camini dello stabilimento EVC di Porto Marghera.
All’esito del giudizio di primo grado, il Tribunale di Venezia aveva riconosciuto gli imputati responsabili del delitto di cui all’art. 437, co. 2, c.p. mentre la Corte d’Appello di Venezia, da un lato, ha escluso la sussistenza della circostanza aggravante prevista al secondo comma dell’art. 437 c.p., ritenendo che l’evento non fosse ricompreso nella nozione di disastro delineata dalla Corte Costituzionale e dalla successiva giurisprudenza di legittimità, dall’altro lato, ha assolto gli imputati anche dall’accusa di omissione dolosa di cautele antinfortunistiche per mancanza del dolo richiesto dal primo comma dell’art. 437 c.p.
E’ agevole rilevare e parimenti interessante osservare come le due pronunce giungano a conclusioni diametralmente opposte in quanto il giudice di prima istanza aveva concluso che la fuoriuscita di CVM da uno dei camini dello stabilimento EVC, pur non avendo provocato effetti lesivi all’integrità fisica delle persone, era comunque qualificabile come disastro, avendo prodotto “una contaminazione del comparto aria, con conseguente inquinamento di un bene collettivo di importanza primaria per la tutela dell’ambiente e della salute”, mentre la Corte d’Appello di Venezia non ha condiviso il percorso motivazionale del Tribunale basandosi, anzitutto, su una diversa nozione di disastro, i cui tratti qualificanti devono apprezzarsi sotto un duplice e concorrente profilo: – sul piano dimensionale “si deve essere al cospetto di un evento distruttivo di proporzioni straordinarie, anche se non necessariamente immani, atto a produrre effetti dannosi gravi, complessi ed estesi”; – sul piano della proiezione offensiva, invece, “l’evento deve provocare un pericolo per la vita o per l’integrità fisica di un numero indeterminato di persone; senza che peraltro sia richiesta anche l’effettiva verificazione della morte o delle lesioni di uno o più soggetti”.
L’immissione di sostanze tossiche in atmosfera può, pertanto, integrare gli estremi di un disastro, ma a condizione che tale immissione determini, sotto il profilo dimensionale, “imponenti processi di deterioramento, di lunga o lunghissima durata, dell’habitat umano”.
Pertanto, pur riconoscendo che l’art. 437, co. 2, c.p. non richiede l’effettiva lesione dell’incolumità individuale di una pluralità di persone, essendo sufficiente l’esposizione a pericolo, la sentenza d’appello rileva che “nei casi in cui il disastro è causato dall’immissione nell’aria di sostanze tossiche, tale immissione deve essere comunque tale da innescare un imponente processo di deterioramento dell’aria (dato qualitativo) e l’esposizione a pericolo per la salute che ne consegue (dato qualitativo) deve essere accertata in concreto”.
Fatte tali precisazioni in punto di diritto, la Corte ha escluso che nell’incidente occorso l’8 giugno 1999 siano ravvisabili i requisiti del disastro penalmente rilevante.

Ad avviso della Corte d’Appello, dunque, la fuoriuscita di tre tonnellate di CVM dal camino dello stabilimento EVC non avrebbe prodotto quell’imponente processo di deterioramento dell’aria richiesto dalla Suprema Corte per la configurabilità del disastro in caso di immissione di sostanze tossiche in atmosfera, bensì solo un degrado transitorio della qualità dell’aria, protrattosi per un intervallo di tempo relativamente breve.
La Corte d’Appello nega, altresì, che l’evento oggetto di contestazione abbia determinato un effettivo pericolo per la vita e l’integrità fisica di un numero indeterminato di persone.
Sul punto, la Corte valorizza, anzitutto, il contenuto della nota del 29 gennaio 1999 trasmessa dall’Istituto Superiore di Sanità al Ministero dell’Ambiente (allegata alla relazione dei consulenti tecnici di parte civile), nella quale si affermava che, sebbene il rischio derivante dall’esposizione a CVM potesse considerarsi “apprezzabile”, le conoscenze scientifiche all’epoca disponibili non consentivano di fornire una risposta certa al quesito relativo alla capacità delle sostanze cancerogene (tra le quali rientra pacificamente anche il cloruro di vinile monomero) di indurre tumori a seguito dell’esposizione ad alte dosi di breve durata.
Esclusa l’operatività della circostanza aggravante, la sentenza si concentra sull’ipotesi base del reato di omissione dolosa di cautele antinfortunistiche, soffermandosi, in particolare, sulla sussistenza in capo agli imputati dell’elemento psicologico richiesto dal primo comma dell’art. 437 c.p.
A tal proposito, il giudice di prime cure aveva ritenuto sussistente il dolo degli imputati nella condotta di omesso approntamento di un sufficiente sistema di convogliamento degli sfiati e di omesso approntamento di automatismi nel funzionamento dell’impianto.
Ulteriori indizi del dolo erano poi stati desunti: da un complessivo comportamento di inerzia tenuto dall’azienda nei riguardi di varie prescrizioni imposte dalle autorità amministrative, anche in epoche antecedenti l’evento; dalla circostanza che alcuni interventi volti ad evitare il rischio di insorgenza di simili eventi erano già stati programmati prima dell’evento; dal fatto che, subito dopo l’evento, la società EVC aveva presentato un piano di interventi dettagliato e corredato di studi tecnici per il miglioramento dell’impianto.
La Corte d’Appello, al contrario, facendo proprio il contenuto del verbale del 25 marzo 1997 con cui il Comitato Tecnico Regionale (CTR) aveva espresso parere favorevole al progetto di potenziamento dell’impianto di produzione del CVM, presentato dalla società EVC anni prima che si verificasse l’incidente dell’8 giugno 1999, rileva che, sebbene il parere positivo fosse subordinato all’osservanza di alcune prescrizioni, nel suddetto verbale si legge che “in considerazione della particolare tecnologia non sono disponibili linee guida applicabili”.
Data l’assenza di evidenza scientifica in ordine alla fattibilità e decisività degli adeguamenti impiantistici prospettati dal Tribunale, nonché di qualsiasi concreta prescrizione impartita all’azienda prima del verificarsi dell’incidente, la sentenza ritiene “che si versi in un ambito al più colposo, ma certamente non doloso, difettando i requisiti della rappresentazione della possibilità di agire, cioè di compiere l’azione doverosa, e della volontà dell’omissione, cioè di non compiere l’azione doverosa”. Per la Corte, deve quindi escludersi che possa ritenersi integrata la fattispecie di reato di cui al primo comma dell’art. 437 c.p. ed alla luce di tutte le considerazioni sopra richiamate, nonostante l’intervenuta prescrizione del reato, ha pertanto assolto gli imputati dal delitto loro ascritto con la formula “perché il fatto non sussiste”.