Abstract: La nota crisi sanitaria mondiale ha comportato lo slittamento dell’entrata in vigore del nuovo codice della crisi d’impresa. Tuttavia, è necessario sin d’ora confrontarsi con la novella, e per quanto qui d’interesse, analizzando le norme attualmente in vigore che regolano il concordato in continuità con quelle del nuovo codice la cui efficacia è prevista, ormai, dal 1° settembre 2021.

Il problema

La diffusione del Coronavirus ha imposto al legislatore il differimento dell’entrata in vigore del codice della crisi e dell’insolvenza. Si tratta del nuovo impianto normativo che regolerà il diritto concorsuale, un codice, emanato a seguito di un complesso iter legislativo, chiamato a sostituire l’attuale legge fallimentare ormai in vigore da quasi ottant’anni.

In passato ci siamo già occupati della nuova normativa, ma oggi proponiamo un confronto tra l’attuale disciplina del concordato in continuità e quella che entrerà in vigore a breve.

Il concordato preventivo è quel procedimento che consente all’imprenditore insolvente, o in stato di crisi, di proporre un piano di ristrutturazione dell’indebitamento a tutti i suoi creditori i quali sono, quindi, chiamati ad approvare il piano. Tra le ipotesi previste dalla (attuale) legge spicca il concordato in continuità aziendale, opzione ritenuta di favore da parte del legislatore poiché consente la conservazione dell’impresa ancorché sottoposta ad una procedura concorsuale.

Le riforme degli ultimi anni – prima ancora del nuovo codice –, infatti, sono l’espressione di una scelta politica del legislatore ben chiara: avvantaggiare l’imprenditore in crisi che fa ricorso ad una procedura concorsuale che vuole conservare l’azienda, e limitare, fortemente, i piani di concordato prettamente liquidatori (ritenuti, correttamente, non troppo dissimili da una procedura fallimentare) prevedendo, ad esempio, soglie minime di pagamento dei creditori chirografari.

Ebbene, in piena sintonia con l’attuale normativa, il nuovo codice della crisi favorisce [ancor di più] procedure concorsuali in continuità emarginando ulteriormente quelle liquidatorie.

Tale scelta è percepibile già dall’inserimento, nella norma di apertura del capo III della sezione I relativo al concordato preventivo, della regolamentazione del concordato in continuità, a differenza di quanto previsto nell’attuale quadro normativo allorché il concordato in continuità viene disciplinato dall’art. 186-bis.

Il confronto

L’attuale concordato in continuità si sostanzia nella prosecuzione dell’attività di impresa da parte dello stesso imprenditore oppure, in alternativa nella «cessione dell’azienda in esercizio ovvero nel conferimento dell’azienda in esercizio in una o più società, anche di nuova costituzione». L’art. 186-bis, poi, impone che il debitore dimostri, attraverso la relazione di un professionista indipendente, che «la prosecuzione dell’attività d’impresa prevista dal piano di concordato è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori», oltre al c.d. business plan che descriva i ricavi e i costi attesi dalla prosecuzione.

Per quanto riguarda, invece, il nuovo codice, al di là della centralità dell’art. 84 nel sistema concordatario, il legislatore ha previsto nuovi e ulteriori requisiti per consentire la continuazione dell’azienda in crisi, infatti:

  • la cessione dell’azienda può essere antecedente alla presentazione del piano, purché in funzione dello stesso;
  • la cessione dell’azienda a una società di nuova costituzione è consentita, purché sia previsto il mantenimento o la riassunzione di un numero di lavoratori pari ad almeno la metà della media di quelli in forza nei due esercizi antecedenti il deposito del ricorso e per un anno dall’omologazione;
  • il piano deve prevedere che l’attività d’impresa sia funzionale ad assicurare il ripristino dell’equilibrio economico finanziario nell’interesse prioritario dei creditori, oltre che dell’imprenditore e dei soci;
  • nel concordato in continuità aziendale i creditori vengono soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale diretta o indiretta che sia, ivi compresa la cessione del magazzino; la prevalenza si considera sempre sussistente quando i ricavi attesi dalla continuità per i primi due anni di attuazione del piano derivano da un’attività d’impresa alla quale sono addetti almeno la metà della media di quelli in forza nei due esercizi antecedenti il momento del deposito del ricorso;
  • infine, a ciascun creditore deve essere assicurata un’utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile, ma non necessariamente monetaria.

Raffrontando la nuova disciplina con quella attuale, evidenziamo come la continuazione dell’impresa, nel futuro impianto normativo, debba essere funzionale ad assicurare il ripristino dell’equilibrio economico finanziario nell’interesse prioritario dei creditori, dell’imprenditore e dei soci. Un nuovo requisito che nell’attuale normativa non è presente.

Altra importante differenza risiede nel comma 3 dell’art. 84 che prevede che i creditori debbano essere soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale diretta o indiretta.

In sostanza, a differenza dell’attuale normativa che consente all’imprenditore di presentare un concordato misto (cioè, in parte liquidatorio e in parte in continuità), l’art. 84 prevede che, al di là delle modalità di presentazione del piano, il concordato è in continuità allorquando l’attivo necessario per fronteggiare la ristrutturazione sia prevalentemente riconducibile ai flussi derivanti dalla continuazione dell’impresa. Non solo, se nell’impresa sono addetti almeno la metà della media dei lavoratori in forza nei due esercizi antecedenti al deposito del ricorso, si ha sempre la prevalenza.

In altri termini, il legislatore ha previsto che al di là della forma, prevarrà la sostanza del piano concordatario.

Per quanto riguarda, invece, la moratoria del ceto prelatizio, la nuova normativa l’ha fissata in due anni (quella attuale in uno); inoltre, l’art. 186-bis prevede che siffatti creditori non abbiano, comunque, il diritto di voto, mentre l’art. 86 del nuovo codice riconosce il diritto di voto nel limite della differenza fra il credito, maggiorato degli interessi di legge, e il valore attuale dei pagamenti previsti nel piano, alla data di presentazione della domanda. In sostanza, il creditore prelatizio può votare per la parte di credito che, a causa della moratoria, subisce una svalutazione.

Possiamo concludere, quindi, che il nuovo codice della crisi e dell’insolvenza, pur prevedendo nuovi requisiti, evidentemente più stringenti di quelli attuali, abbia ulteriormente favorito la soluzione della crisi d’impresa che prevede la conservazione degli asset e la continuazione dell’attività, relegando definitivamente, il concordato liquidatorio, ormai concretamente attuabile solo se accompagnato da risorse esterne che determinino un maggior riparto a favore dei creditori chirografari non inferiore al 10% rispetto all’ipotesi fallimentare (o meglio, di liquidazione giudiziale), fatto salvo il pagamento minimo del 20%.

La soluzione concordataria, ancorché sottoposta a requisiti sempre più stringenti, resta una valida e preferibile alternativa al fallimento (o, come definito dal nuovo codice, liquidazione giudiziale) poiché permette di evitare le conseguenze sia sul piano civile (azioni di responsabilità o revocatorie fallimentari) che su quello penale (reati di bancarotta), la cui potenziale gravità giustifica, ancora oggi, il ricorso al concordato, anche nella ipotesi – resa più onerosa – prettamente liquidatoria.

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